L’apparecchio magico.

A Natale la nostra casa traboccava di persone tanti ne eravamo, ci vivevamo già in molti e, come se non bastasse, in quei giorni venivano da Genova anche i miei zii.

 La sera in ogni camera saltavano fuori letti,  e finalmente il silenzio aveva la meglio sul chiasso che aveva regnato in casa. A noi ragazzi piaceva molto quella promiscuità e quella gioia di vivere insieme,

Mio zio Gigi, colonnello dell’aereonautica, in quegli anni girava le montagne d’Italia per costruire Antenne che magicamente diffondevano nell’aria le onde sonore, era ingegnere. Forse per questo era sempre il più aggiornato sulle innovazioni della tecnica. Quando ci raccontava del suo lavoro, dei tralicci che si arrampicavano sulle vette più alte, noi bambini ci chiedevamo come facessero quelle onde invisibili e silenziose a trasmettere nell’aria suoni e parole catturate da un microfono.

Sebbene la casa fosse grande noi trascorrevamo praticamente le nostre giornate in una stanza vicino alla grande cucina da cui si sprigionavano gli odori del cibo che mia nonna aiutata dalle figlie e dalle nuore cucinava. L’aroma del miele sciolto per gli struffoli si mischiava all’odore del brodo in cui avremmo cotti i tortellini che mia zia e mia madre arrotolavano dopo aver preparato la farcitura e steso la pasta fresca.

Quell’anno la sera della vigilia lo zio scartocciò di nascosto un pacco ed estrasse un apparecchio magico che   aveva portato come regalo per tutta la famiglia. Si presentò nella stanza e volle che tutti ci sedessimo attorno alla grande tavola. Collegò l’apparecchio alla presa di corrente, infilò con quel suo sorriso ironico in una buco dell’apparecchio lo spinotto di un piccolo microfono grigio, prese un rocchetto attorno al quale era arrotolato un nastro marrone, e come se stesse facendo un gioco di prestigio lo inserì nell’apparecchio, srotolò un poco il nastro e  facendolo passare in una specie di testina rotante lo avvolse in un altro rocchetto. L’apparecchio aveva dei tasti colorati, spinse in giù il primo tasto di colore rosso. Il nastro iniziò ad avvolgersi da un lato e a srotolarsi dall’altro e lui diede inizio alla magia interrogandoci, chiedendo a  ognuno il nome  e l’età come si  fa nel presentarsi a degli estranei. Finito il giro di presentazioni roteando le mani nell’aria spinse col dito indice in giù il tasto nero e il nastro si fermò. Adesso ascoltate ci disse mentre premendo il tasto giallo il nastro tornava indietro arrotolandosi nuovamente. Lo fermò, spingendo nuovamente il tasto nero, appena in tempo per non permettergli di uscire dalla testina rotante. Fu allora che attardandosi un poco per aumentare l’attesa pigiò in giù il tasto verde, non potevamo immaginare cosa stesse per accadere.

Le nostre voci erano state catturate da quel microfono e misteriosamente impresse sul nastro, e  uscivano dall’altoparlante che ripeteva uguale uguale tutto quello che avevamo detto. C’era qualcosa che però preoccupava noi bambini: le voci degli altri le riconoscevamo ma le nostre no. Ognuno percepiva la sua come diversa e si perché non c’eravamo mai sentiti parlare, o meglio eravamo abituati alle nostre voci che  raggiungevano dall’interno le nostre orecchie, ora invece provenivano da fuori e rimbalzavano sui nostri timpani.

Quando iniziammo a prendere confidenza con quell’apparecchio, allora si che iniziò il divertimento.

Il nostro gioco preferito era di imitare le trasmissioni che sentivamo alla radio e diventammo tutti giornalisti e presentatori e i più coraggiosi anche cantanti.

Il registratore della Geloso divenne un oggetto familiare e lo utilizzammo anche per inviare ai nostri parenti lontani i nastri con i nostri saluti.

Quello fu l’inizio delle tante meraviglie che la tecnica ci avrebbe offerto, ma questa è un’altra storia.

Mario Bianchi Written by:

Nato il secolo scorso. Ama andare in giro fra libri e piccoli borghi. Monogamo da sempre, sta bene in famiglia e con gli amici, in loro compagnia ama bere del buon vino e fumare tabacco.

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